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Lotta

FENOMENI - Luigi Braida: vita e ricordi di un ex lottatore

Dopo la pausa estiva riprendiamo a raccontarvi le storie dei “fenomeni” che praticano o hanno praticato le nostre discipline. Oggi vi parleremo del lottatore Luigi Braida.

L’incontro è fortuito: ci si conosce da un po’. Un giorno, durante una chiacchierata informale, si parla di varie cose; nel discorso viene fuori che Luigi è stato anche un lottatore nella vita. Lo dice con orgoglio e un pizzico di nostalgia: un periodo molto bello della sua giovinezza, che ora gli pare molto lontano nel tempo.

Classe 1945, tarvisiano di nascita, poi triestino d’adozione, Luigi è un uomo di statura minuta, gli occhi vivaci e una gran voglia di vivere. Esperto di logistica, con un’esperienze decennale nei trasporti intermodali e un debole, che non si sogna di nascondere, per i treni, ha una memoria di ferro e la capacità di parlare con entusiasmo di qualunque esperienza gli sia capitata nella vita. E di esperienze ne ha vissute parecchie Luigi, viaggiando in lungo e in largo per l’Italia e per l’Europa per lavoro. Prima, però, nei spensierati anni giovanili, ha avuto modo di dedicarsi allo sport, praticando per tre anni la lotta.

Luigi, come è iniziata la tua passione per la lotta?

Erano i primi anni ’60. A Trieste, dove vivevo oramai da qualche anno, si praticava la lotta libera e quella greco-romana presso la Società dei Vigili del Fuoco, che ha avuto una storia importante in passato. Sono andato a dare un’occhiata e ho chiesto di poter provare anch’io. Mi sono subito appassionato!

Quale stile prediligevi?

Mi affascinava la lotta greco-romana, ma ritenevo, credo a ragione, di aver più possibilità nello stile libero. All’epoca per i pesi leggeri la competizione era minore, c’era meno gente, mentre abbondavano i pesi medi, per una questione storica: la popolazione di quegli anni, passata la guerra, con il boom economico mangiava molto meglio e i bambini crescevano più robusti. Non c’era ancora una cultura dello sport così diffusa, però si giocava all’aria aperta e ci si muoveva tantissimo.

Chi era il tuo insegnante di lotta?

Per un periodo è stato il Maresciallo Verona, che era tarvisiano di origine, come me ed era stato Campione italiano ed europeo nei pesi medi.  Poi c’erano altri allievi che essendo tra i migliori, aiutavano un po’ anche nel dare indicazioni ai noi novellini: mi ricordo Raichievich, che era stato un campione, poi Turone, detto “roccia”, che era un vigile del fuoco e combatteva inizialmente nei pesi leggeri e poi in quelli medi. Purtroppo di loro mi rimangono ricordi, ormai sono vecchio e la maggior parte dei miei ex compagni è passata a miglior vita. C’era un amico che aveva fatto parte con me di quel gruppo e che, fino a qualche anno fa, andavo a trovare sul lavoro, in centro a Trieste: ricordavamo insieme quegli anni, gli allenamenti, le risate… essere uno degli ultimi a ricordare volti e nomi che non ci sono più fa un po’ di malinconia, ma questa è la vita.

L’altra tua grande passione di quegli anni era il pugilato.

Sì, mi piaceva moltissimo e vi trovavo delle affinità con la lotta. Ho avuto la fortuna di incontrare alcuni dei grandi campioni, come Nino Benvenuti o il triestino Tiberio Mitri, un mulon, per dirla alla triestina! Un ragazzo di compagnia, gioviale e aperto insomma. Ho conosciuto anche alcuni radiocronisti sportivi, come il grande Duilio Loi, che, nelle sue cronache, non diceva mai nulla di negativo sugli atleti, perché era convinto che fosse anche sua responsabilità incoraggiarli a combattere come dei leoni, attraverso le sue parole.

Tutto questo accadeva nei primi anni ’60. Che cosa hai fatto della tua vita poi?

Sì, tutto questo avvenne a cavallo tra il 1961 e il 1963: ero un ragazzetto che andava ancora a scuola, un istituto tecnico e lo sport mi ha dato le prime regole formative per confrontarmi col mondo esterno: lavoro duro, disciplina, entusiasmo. Tutte cose che mi sono state utilissime poi, quando ho intrapreso il mio percorso lavorativo nella logistica. Sono sempre stato un lavoratore indefesso: non mi sono mai risparmiato. E quella capacità, appresa nella lotta, di capire la situazione e cercare di risolverla a mio vantaggio, mi è tornata utile in diverse situazioni della vita.

Non rimpiangi di non aver proseguito nella pratica sportiva?

A volte ci penso e sì, un po’ spiace, però per me, come dicevo, il lavoro veniva prima di tutto e le frequenti trasferte che iniziai a fare mi rendevano difficile il pensiero di potermi allenare con costanza. Oggi giorno ci si organizza, si ha una cultura sportiva forse maggiore. Ciò che mi spiace constatare è che la lotta, perlomeno a livello locale, sta quasi scomparendo: la scuola triestina era molto valida. Ricordo le competizioni a livello regionale, erano belle gare! Ora c’è una varietà di discipline e arti, credo che sia di moda altro, il che mi fa sentire un po’ vecchio! Ma la lotta, con le sue regole precise e i suoi insegnamenti, è alla base di tutte queste discipline, in fin dei conti, e mi piacerebbe venisse riconsiderata e, magari, insegnata anche nelle scuole, come fanno in America. È una buona valvola di sfogo e insegna ai giovani, in particolare, che si può mettere tutti se stessi contro l’avversario, senza però perdere il rispetto che gli si deve e senza per questo evitare di essergli amici una volta fuori dalla palestra.