Fine novembre a New York. È il 1980. Al Madison Square Garden, in un’ala laterale, si affollano ragazze in tuta, con un borsone sulle spalle. Sono atletiche, nervose, hanno le spalle larghe, e le mani nodose per la molta lotta sulle prese. Sono le judoka che si riuniscono per affrontarsi nel primo Campionato del Mondo di judo femminile. Ad organizzarlo, una di loro, forse la più sognatrice, di certo la più caparbia: Rena Glickman, detta “Rusty”. Per organizzare questa gara si è ipotecata la casa. Lei, newyorkese appassionata di arti marziali e innamorata del judo, che si trasferì in Giappone per image0apprendere i segreti dell’arte orientale e sul tatami conobbe suo marito, prendendo quindi il cognome Kanokogi. “Rusty”, soprannome assunto da un cane randagio del quartiere, come forse si sentiva lei, lottava da anni per i diritti delle donne nello sport che amava. In Europa era già un’altra cosa: esistevano dagli anni ‘70 campionati europei di judo femminili, anche se in sedi e date diverse da quelle maschili, e anche se i premi in denaro erano sottostimati rispetto a quelli maschili. Ma in America no: Rusty nel 1959 si era tagliata i capelli corti e si era fasciata il seno per partecipare nascondendo il sesso a una gara di judo a squadre: sul podio, le era stata strappata la medaglia dal collo, nel momento in cui si accorsero che era una donna. Eppure, nel regolamento agonistico statunitense non vigeva nessuna regola rispetto al genere dei partecipanti. Quella medaglia mancante ebbe un peso decisivo nel futuro di Rusty e del judo mondiale: Rena decise che avrebbe lottato fino a vedere il judo femminile alle olimpiadi. Una storia epica, quella del cammino del judo femminile, che ha in New York 1980 una tappa fondamentale. In quel novembre, al Madison, c’era anche la nazionale italiana femminile, fortemente voluta da personaggi quali Franco Natoli, Alfredo Monti, Maria Bellone. Le ragazze erano Anna De Novellis (che vinse l’argento nei -48 kg), Patrizia Montaguti (-52 kg), Maria Vittoria Fontana (-56 kg), Laura Di Toma (che fu d’argento nei -61 kg), Nadia Amerighi (-66 kg e Open), Cristina Fiorentini (-72 kg) e Margherita De Cal, che vinse il titolo nei massimi.

image1 L’Italia finì terza nel medagliere, dietro a Austria e Francia, dimostrando non solo la tenacia delle nostre azzurre, ma anche che in Italia si credeva nel progetto del judo femminile. «Fu una battaglia in cui credevamo tanto», dice Laura Di Toma, dieci volte medagliata in campionati d’Europa di judo. «Non si trattava solo del tatami: volevamo che i nostri sacrifici fossero equiparati a quelli di tutti gli altri, che fossimo riconosciute nel mondo senza pregiudizi». Rusty, dopo la gara, scrisse a tutte le partecipanti del Mondiale, chiedendo di firmare una petizione da inviare a Losanna per portare il judo femminile alle olimpiadi. E il sogno si avverò. Fu nel 1988, a Seoul, come sport dimostrativo, e poi, definitivamente, a Barcellona ‘92. «Io non ho potuto fare le Olimpiadi» -dice Laura di Toma a un gruppo di atlete che la osservano attonite mentre racconta questa storia, «ma voi la potrete fare, è questo che conta!». Sale un nodo alla gola e c’è commozione nel Palazzetto di Spilimbergo, nella prima gara post Covid. Laura Di Toma fu la prima atleta donna a ricevere una borsa di studio per la sua vittoria europea, a Vienna nel 1976. A maggio, in Friuli, il terremoto aveva sconvolto le vite di tanti, troppi. Laura, nativa di Osoppo, aveva perso la casa, e il negozio dei suoi genitori. Non c’erano palestre, non c’era lavoro, non c’era la luce dei lampioni. Dopo aver spalato le macerie, la sera, Laura andava a correre nel buio, con suo padre dietro, a illuminarle la strada con i fari del furgone che aveva miracolosamente salvato. E in dicembre 1976, quando arrivò l’oro europeo di Vienna, fu un tripudio: Laura di Toma balzò meritatamente agli onori delle cronache, e divenne l’esempio vivente della capacità di resistere e di risalire che popolo friulano. Non aveva finalmente più senso sottostimare lo sport femminile. E il judo femminile ebbe finalmente risonanza. Una storia che Laura, atleta simbolo di quella generazione di judoka, ha sempre custodito gelosamente per sé, per pudore e per umile riserbo. Storia e storie che oggi non solo meritano, ma devono essere raccontate. Storie di pionieri che hanno lastricato le strade su cui oggi camminiamo sicuri, senza pensare alla fatica che sono costate, e alle lacrime che le hanno bagnate. A fine novembre 2020, a New York, l’IJF celebrerà con una festa-evento i quarant’anni da quel campionato così epocale e significativo non solo per il judo, ma per lo sport e per la società intera. L’idea è partita dall’Italia, e in particolare dal Friuli, da Elisabetta Fratini e Maria Grazia Perrucci, durante i festeggiamenti per il settantesimo compleanno, occorso proprio nel 2020, della regina di New York: Margherita De Cal, veneziana che in quel lontano 30 novembre vinse il primo oro mondiale nella storia del judo italiano. Auguri a Margherita, a Laura, e tutte le ragazze che hanno combattuto e combattono per il progresso della comunità umana. E grazie.

La IJF ha organizzato un momento celebrativo che si terrà sabato 28 novembre alle 18 e domenica 29 alle 11 con dei webinar trasmessi in diretta sul canale YouTube IJF e tutte le piattaforme social media IJF (Facebook, Instagram ecc.) che tutti potranno seguire QUI