Le antiche Olimpiadi (IV)

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Roma 28 maggio 2020 Pubblichiamo oggi un nuovo avvincente racconto storico narrato dall’arch. Livio Toschi, nella sua veste di storico della FIJLKAM. Buona lettura!

Allenatori e dietologi

Lo spirito competitivo permeava la società greca e in ogni uomo si lodava l’ambizione, la brama di gloria (philotimia). Colui che eccelleva, il migliore, veniva definito aristos; la capacità di primeggiare arete; l’essere sempre il primo aien aristeuein, come scrisse già Omero nell’Iliade. L’ideale della perfezione fisica e morale, indissolubilmente legate in armonico equilibrio, prendeva il nome di kalokagathia (kalos kai agathos = bello e buono).
Dopo il periodo arcaico e “spontaneo” dell’allenamento, gli atleti prestarono attenzione sempre maggiore alla techne, ossia alla metodica delle singole discipline, cercando di affinare il talento naturale con appositi allenamenti e curando il proprio corpo con diete, bagni e massaggi. Sul calice a figure rosse di Antifone al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma (480 a.C.), per esempio, un aleiptes sta massaggiando un atleta in presenza dell’allenatore. Il lottatore e pancraziaste Stratone di Alessandria, olimpionico nel 68 a.C., si fece addirittura costruire una palestra personale in Aigion.
I buoni allenatori erano tenuti in grande considerazione, tanto che l’ateniese Melesia compare tre volte nelle odi superstiti di Pindaro. Con la vittoria olimpica di Alcimedonte di Egina nella lotta per i fanciulli (460 a.C.) la sua scuola colse il trentesimo successo nei principali giochi panellenici [Olimpica VIII].
Filostrato (autore di celebre un trattato sull’allenamento) sosteneva che «il merito delle vittorie di un atleta spetta per metà al suo istruttore», citando come degni di memoria: Erissia, che nel 564 a.C. spronò Arrichione a non arrendersi nel pancrazio, a costo della vita; Tisia, che nel 520 a.C. fece vincere Glauco di Caristo nel pugilato grazie al “colpo dell’aratro”; l’allenatore del pancraziaste Promaco di Pellene, che con una bugia sulla ragazza amata lo spinse al successo contro il grande Pulidamo. Il povero Arrichione, incoronato vincitore dopo la sua morte, fu il primo atleta a servirsi di un allenatore.
Come facevano i condottieri con i soldati prima della battaglia, così gli allenatori – soprattutto quelli specializzati nell’atletica pesante – stimolavano gli atleti prima della gara con discorsi che li incitavano alla vittoria (logoi protreptikoi). Il pancraziaste Mandrogene di Magnesia al Meandro, orfano del padre, ricordava quanto gli fossero stati utili per accrescere il suo coraggio i consigli dell’allenatore. Costui aveva scritto alla madre di Mandrogene: «Se sentirai che tuo figlio è morto, presta fede a queste parole, ma se ti diranno che ha perso, non crederci».
Non tutti gli allenatori, tuttavia, si dimostrarono all’altezza del loro compito. Il lottatore Gereno di Naucrati, vincitore a Olimpia nel 209 d.C., spirò pochi giorni dopo il successo per i postumi di un’indigestione e per la stupidità del suo allenatore, che malgrado l’indigestione lo costrinse a esercitarsi intensivamente. Ciò per non interrompere le tetradi, «cicli di allenamento di quattro giorni, in ognuno dei quali si praticava una diversa attività», da molti ritenute dannose.
Gli allenatori, spesso ex atleti, oltre che tecnici provetti dovevano essere esperti di fisioterapia, dietologia e altro ancora. Insomma, come sosteneva Pindaro, l’allenatore era il tekton, ossia il “costruttore” dell’atleta. Ma con questa categoria non fu certamente tenero il famoso medico Galeno di Pergamo, che definì l’allenamento kakotechnia, ossia una pratica di basso livello.
Per aiutare giovani promettenti ma poveri, alcune città pagavano direttamente degli allenatori. Gli storici Finley e Pleket scrivono che verso il 300 a.C. Efeso deliberò un sussidio all’allenatore Terippide perché si dedicasse a un atleta già vincitore di una gara giovanile a Nemea. I due autori ricordano inoltre che un allenatore contemporaneo di Terippide, Ippomaco di Atene, chiedeva 100 dracme per un corso completo.
2. Anfora di Andocide1.
Per affermarsi gli atleti cercarono di migliorare le proprie prestazioni anche con diete appropriate. Sembra che lo spartano Carmide, impostosi nella corsa veloce all’Olimpiade del 668 a.C., sia stato il primo a sottoporsi a un regime dietetico, cibandosi di fichi secchi. Più tardi il filosofo e matematico Pitagora di Samo sperimentò con successo un’alimentazione a base di carne sul concittadino Eurimene, vincitore di una gara “pesante” a Olimpia nel 532 a.C.

3. Coppa di Antifone
Si riteneva senz’altro opportuna, assieme alla dieta, la continenza sessuale durante i giochi e il famoso allenatore Icco di Taranto (autore del primo manuale sull’allenamento) la raccomandava in particolare durante una preparazione intensiva. Qualcuno la osservò addirittura per tutta la vita: per questo singolare primato divenne celebre Clitomaco di Tebe, che a Olimpia vinse nel 216 a.C. la gara di pancrazio e nel 212 quella di pugilato. Affermava Filostrato: «Come possono essere chiamati uomini coloro i quali hanno preferito turpi godimenti alle corone e alle gare atletiche?». Per mantenersi in forma, secondo Platone, gli atleti dovevano evitare la tavola siracusana, i condimenti siciliani, i dolci attici e, soprattutto, le ragazze di Corinto.

Didascalie

In copertina: Rilievo in marmo pentelico che raffigura atleti in allenamento (VI-V secolo a.C.) – Museo Archeologico Nazionale, Atene > in copertina

1. Anfora di Andocide, che raffigura una scuola di lotta (525 a.C.) – Antikensammlungen, Berlino

2. Coppa di Antifone, che raffigura un atleta con massaggiatore e allenatore (480 a.C.) – Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Roma

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